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domenica 7 settembre 2014

Per sempre noi

One-shot
- E tu, Jewel, lo vuoi? - la ragazza sentì il cuore scoppiarle dalla felicità. - Sì, lo voglio - poi vide il viso del suo amato avvicinarsi al suo e... - JEWEL!! - si riscosse dal suo sogno ad occhi aperti ed Alex le accarezzò dolcemente i capelli. - A cosa stavi pensando? - le chiese. Arrossì di botto: - A... niente! - mentì. Lui ridacchiò, poi sorrise. - Va bene - borbottò socchiudendo gli occhi. Jewel sospirò: erano a casa, ancora una volta, e un altro anno era passato. Non avevano dimenticato ciò che era successo, ma la magia non era scomparsa davvero del tutto e Storm ne era la prova vivente. Viveva lì ora, facendo vari lavori finché non ne avesse trovato uno fisso, ed era il suo migliore amico: andare d'accordo con lui era semplicissimo, e poi avevano passato tanto tempo insieme quando era ancora un unicorno che il loro legame non poteva che essere saldo e duro come una roccia. - Alex, prendi dei vestiti più pesanti - disse la ragazza infilandosi una giacca pesante: - Perché? - domandò grattandosi la nuca. - Andiamo da mia madre - rispose sorridendo. - Oh... ok - ci impiegarono giusto un'ora e mezza, poi giunsero davanti ad una casetta dall'aspetto modesto. Jewel bussò, poi trattenne il fiato. Una donna dall'aspetto ancora giovane venne ad aprire: - Mamma? - gli occhi della donna si sgranarono. - Jewel! - si abbracciarono forte. - Da quanto tempo, Jewel... - Diantha sorrise: sua figlia era cresciuta, era adulta ora, eppure non era diversa dalla bambina con gli occhioni da cerbiatto che giocava con il papà e gli faceva i braccialetti. Da dietro la ragazza fece capolino Alex, che alzò una mano e la agitò in segno di saluto, imbarazzato. - Qual buon vento vi porta qua? - domandò, facendo loro segno di accomodarsi. - Mamma... lui è il mio ragazzo, Alex - lo presentò, sforzandosi di sembrare allegra. La donna lo soppesò, poi sorrise calorosamente: - Sei un bravo ragazzo, di sicuro - commentò, e lui emise una risatina nervosa. La madre tornò a rivolgersi alla figlia, che deglutì vistosamente. - In verità siamo qui perché... ecco... mamma, la settimana prossima ci sposiamo - disse Jewel tutto d'un fiato, irrigidendosi quando la donna serrò le labbra. - Ma è una notizia fantastica! - esclamò con gioia. I due ragazzi si guardarono imbarazzati. - Alex, puoi lasciarci un attimo sole? - chiese Jewel fissando il pavimento. - Certo - rispose e andò a sedersi su una poltrona. - Mamma... - la donna prese una tazza e vi versò il tè. - Sono orgogliosa di te, e... anche papà lo sarebbe - la voce le si incrinò. - Non posso spiegarti come e perché, ma lui se n'è andato per non farti soffrire, ma ti non ti ha mai dimenticata. Davvero, mamma... ti amava - Jewel tacque, pensando che forse aveva parlato troppo. Diantha non disse nulla. - Manca tanto anche a me - confidò la ragazza. Si abbracciarono ancora. La voce di Alex le interruppe, agitato: - Guardate fuori!! - strillò. E difatti in mezzo al prato spoglio c'era un bellissimo cervo con le corna ampie e il pelo castano chiaro. Uscirono piano di casa e l'animale alzò la testa, rivelando un occhio grigio e l'altro castano. Si guardarono sbalorditi: - Non è possibile... - sussurrò la ragazza. Il grosso cervo continuò a fissarli, senza un'ombra di paura. Diantha, gli occhi fissi in quelli dell'animale, gli si avvicinò lentamente e il cervo non fece una piega neanche quando la donna allungò una mano verso di lui, anzi, sporse il muso in avanti e lo passò sotto il palmo freddo. Restarono un po' così, poi il cervo si sottrasse al tocco umano e trotterellò verso la foresta. Una settimana più tardi, dopo il matrimonio... - Alla fine mio padre non è venuto davvero - constatò Jewel con un pizzico di amarezza. - Non è questo ciò che conta ora... - mormorò il ragazzo guardando il cielo. - Giusto - osservò la ragazza e si voltò verso lo sposo: - Ti amo tanto, Alex - disse con voce rotta e il ragazzo le asciugò una lacrima solitaria che le era sfuggita. - Anch'io - rispose, stringendola a sé. Mentre Jewel andava in bagno, Alex venne fermato dal Re: - Congratulazioni - disse il sovrano e il ragazzo sorrise. - Grazie - rispose, e fece per andarsene. - Alexander - lo fermò. Il biondo contrasse la mascella: - ... - era il giorno più bello della sua vita, sì, ma ora era stanco e voleva solo tornare a casa il più velocemente possibile. - È giunta l'ora che tu sappia... - il ragazzo si fece attento - che io sono tuo padre - Sua Maestà sospirò. - Cosa? - dallo stupore non poté usare un'espressione più elegante. - È così - replicò stancamente - quando scivolai nel crepaccio pensavo che non... non ne sarei uscito vivo, e difatti ci impiegai quasi un anno. Volevo tornare da voi, ma ormai tu e tua madre avevate cambiato casa e così venni qui, dove ben presto mi elessero Re. Avrei voluto dirtelo tre anni fa, ma non volevo sconvolgerti. Ora hai diciotto anni, e sei l'erede al trono, ma non sei obbligato a diventare Re. Hai tempo per decidere fino al tuo venticinquesimo compleanno, poi sarà definitivo. - ed Alex ci credette, e non esitò quando il padre aprì goffamente le braccia: lo abbracciò come non faceva da anni e si sentì stringere a sua volta da quelle braccia forti. - Va' ora, che sarai stanco - gli fece l'occhiolino e lo lasciò andare. "Non ci crederà mai Jewel quando gli dirò che sono... un principe!" rise tra sé e andò a cercarla: - Jewel? Ehi Jewel, sai una cosa incredibile?... - . Tre anni più tardi la ragazza era sul letto in compagnia di Storm: - Come stai? - le chiese e lei si alzò. - Sto benissimo - borbottò, aggrappandosi al suo braccio. - Non dovresti alzarti - osservò il ragazzo dagli occhi blu. Ricevette un'occhiataccia. - Cos'ha detto il dottore? - domandò per cambiare discorso. - Oh, probabilmente saranno due gemelli - commentò la ragazza con un sorriso dolce. - Che lavoro fai ora? - gli chiese. Lui fece spallucce. - Aiuto Daniel con i cavalli... - disse. Jewel si accarezzò il pancione e fissò gli occhi blu dell'amico: - Grazie, Storm, di esserci sempre - sussurrò facendogli una carezza. - Ci sarò sempre per te Jewel, come ci sono sempre stato - lei lo abbracciò, pensierosa. Poi alzò la testa di scatto: - Da quanto tempo mi stai vegliando? - domandò, lasciandosi annegare nei suoi occhi sinceri. - Da quando tuo padre se ne andò - rispose, e le tornarono in mente dei ricordi di quand'era bambina. Stava giocando nella neve, quando, udendo un rumore, aveva visto un magnifico unicorno osservarla fra gli alberi. - Ma è tantissimo! - esclamò sgranando gli occhi. - Lo faccio volentieri... per te, qualsiasi cosa - ribatté dolcemente. La ragazza lo guardò con rammarico: se non avesse mai incontrato Alex, forse... ma ormai era così. Alla fine nacquero davvero due gemelli, un maschio e una femmina. La piccola Blue Sophia Kalea era un'uragano: una chiacchierona, spericolata e curiosa. Le piaceva andare col padre a guardarlo addomesticare i più svariati animali. Da Alex aveva preso gli occhi grigio chiaro mentre i capelli non poteva che averli ereditati dalla nonna: biondi chiaro, quasi crema. Invece il fratellino Chase William Ray era tutto il contrario: calmo, oltremodo educato e quasi fifone. Aveva degli occhi incredibili, blu con sfumature viola, e i capelli castani della madre. Ora avevano entrambi cinque anni, e Jewel doveva ammettere che a volte star dietro a Blue era impossibile. Per fortuna c'era lo "zio" Storm, che giocava sempre con loro e gli insegnava un sacco di cose, e a volte veniva a trovarli nonna Diantha, ma più spesso loro andavano da lei, e facevano i biscotti o si facevano leggere delle fiabe. Ciò che però riempiva Jewel di tenerezza era vedere il cervo, proprio quel cervo, giocare con i bambini come se fossero stati i suoi cuccioli. Lasciava che si aggrappassero alle sue corna, li portava in groppa, gli permetteva di spazzolarlo e di dargli il fieno. E la guardava, sempre. Quel giorno erano a casa, e la ragazza era esasperata: Storm non c'era ed Alex era uscito il mattino presto per andare al mercato. Di solito era lei che andava a comprare ciò che serviva, per cui non aveva idea di cosa fosse andato a fare al mercato. Tornò nel tardo pomeriggio con uno scatolone forato, e lei lo guardò inarcando un sopracciglio: - Cos'hai preso? - gli chiese, ma lui non rispose, limitandosi a fare un sorrisetto. - Papà papà! Cos'è? Possiamo aprirlo? - in un attimo i bambini gli furono addosso. - Certo, è per voi - rispose, guardando Jewel. Blue e Chase emisero un gridolino deliziato, tirando fuori dallo scatolone due batuffoli orecchiuti: uno marrone chiaro e l'altro candido come quello che avevano visto selvatico... la ragazza sentì il cuore gonfiarsi di dolcezza, quando i figli le si avvicinarono con un'espressione implorante in viso: - Mamma... possiamo tenerli? - domandarono. Lei annuì e Alex le cinse la vita con un braccio. - Te ne sei ricordato - soffiò al suo orecchio. - Potrei mai dimenticarmi? - ribatté dandole un bacio sulla guancia. Lei lo baciò con dolcezza: - Ovviamente no - sorrise.

sabato 6 settembre 2014

I'm in love with your smile

One-shot

Penso che tutti mi conosciate, ma mi presento comunque: mi chiamo Sam e ho sedici anni. Questa è la storia di come ho permesso al vero me di mostrarsi nella realtà, ma soprattutto di come mi sono innamorato di un ragazzo dolcissimo dagli occhi blu, sì, un ragazzo. Prima di tutto vi dirò un paio di cose su di me.
Essere il migliore amico di Romeo è sempre stato un grande onore, lui è il più popolare della scuola e ciò mi ha reso popolare a mia volta, nonostante io non sia molto bello: alto, con i capelli corti e lisci, castani rossicci, e gli occhi verde bosco. Solo che essere me non è facile, perché di Sam ce ne sono due: il ragazzo popolare, estroverso e allegro, il migliore amico di Romeo, un adolescente spensierato di cui ci si può fidare, e poi c'è il Sam che resta sempre in ombra. Il vero me è tutto il contrario, introverso, riflessivo e calmo. Un Sam più timido e pacato, un Sam che ama studiare e apprendere. Non ho mai avuto tante ragazze intorno, non me ne sentivo molto attratto: ma per una, una, persi la testa. Si chiamava Hope, speranza, ma tutti la chiamavano Coco. I suoi occhi azzurri violacei erano così magnetici da impedirmi di distogliere lo sguardo da essi e i suoi capelli mossi color cioccolato sembravano soffici come il pelo di un cucciolo. Me ne innamorai perdutamente, e quando glielo confessai lei rispose che provava lo stesso per me, così iniziammo ad uscire insieme. Eppure nonostante ci amassimo, o almeno così credevo, quando ci baciavamo, quando ci guardavamo intensamente negli occhi o ci dicevamo frasi dolci, non potevo fare a meno di provare solo una orribile sensazione di vuoto infondo allo stomaco. Difatti non durò a lungo: diventava ogni giorno più straziante, non era colpa sua, era una brava ragazza, ma il problema ero io. Glielo confidai e lei comprese,aggiungendo anche che si era accorta che negli ultimi tempi ero stato piuttosto distaccato, ma che non provava rancore nei miei confronti e non mi avrebbe implorato di riprovarci. Parlare con lei fu come prendere una boccata d'aria fresca, e rimanemmo amici senza che nessuno dei due esprimesse il desiderio di tornare insieme. Pochi mesi dopo, mi innamorai del mio migliore amico: ero sempre stato una persona adattabile, per cui non provai a rinnegare i miei sentimenti. Amavo un ragazzo ed ero io stesso un ragazzo, inoltre egli era pure il mio migliore amico. Una situazione problematica senza ombra di dubbio, la mia unica certezza era che lui non avrebbe mai saputo i miei veri sentimenti. Non mi avrebbe mai ricambiato, insomma, si vedeva lontano un miglio che tutto di lui gridava "guarda quella ragazza! No, ma hai visto quella?!" e anche se gli avessi confessato ciò che provavo lui avrebbe finto di comprendere per compassione. Non desideravo quel genere di relazione, preferivo che continuasse a vedermi come il suo migliore amico piuttosto che come "il ragazzo che si era innamorato di lui, poveretto". Prima di innamorarmi di lui commentavamo spesso le ragazze che vedevamo, ma pian pian smisi di farlo. Mi facevano soffrire i suoi "oddio quella lì è stupenda!" e facevo spallucce quando mi chiedeva se avrebbe dovuto provarci con una o no. Un giorno ci ritrovammo da soli nello spogliatoio della palestra, dopo le lezioni. Lento com'era, mi aveva implorato di aspettarlo e io, davanti ai suoi occhioni grigi, avevo ceduto senza nemmeno brontolare. - Grazie, Sam - aveva detto con quella sua voce affettuosa che mi faceva tremare le ginocchia. Mi risvegliai dai miei pensieri quando vidi il suo viso voltato verso di me, forse aveva detto qualcosa ma io non lo avevo udito: - Sam? - mi chiamò con la sua voce dolce come il miele. Il mio corpo si mosse da solo e mi avvicinai al suo viso, ma ad un centimetro dalle sue labbra mi fermai: non era giusto, lo avrei solo confuso. Mi ritrassi, mentre il mio cuore riprendeva un ritmo normale, e abbassai lo sguardo, quindi mormorai - Scusa - e guardai altrove, deglutendo. Mi alzai di scatto: - Sam! - mi chiamò ma io sentivo solo il nodo alla gola farsi ancora più soffocante. Le lacrime mi pizzicarono gli angoli degli occhi: - Ciao, Romeo - sussurrai con voce strozzata e me ne andai il più velocemente possibile. Mi permisi il lusso di piangere in silenzio, il viso rivolto al finestrino e l'autobus deserto. Dopo l'incidente decisi di non aprirmi più a nessuno, maschio o femmina che fosse. E ne ero ancora fermamente convinto fino a quando non arrivò lui. Storm. Un ragazzo bellissimo, alto quasi quanto me e con degli stupendi occhi blu. Sorrideva a tutti, un sorriso così solare da abbagliare chiunque, ma forse non abbastanza forte da diradare le tenebre nel mio cuore. Era cortese e gentile, oserei dire educato, con ogni persona che incontrasse, allievi o professori che fossero. Ma non socializzava veramente con loro, si vedeva dalla maschera che indossava: non si apriva davvero con nessuno, perché nessuno lo ispirava. Quel giorno venne da me: - Ciao! Tu devi essere Sam, giusto? - mi chiese con un sorriso smagliante. Alzai lo sguardo dal libro che stavo leggendo - Sì, e tu sei...? - mi afferrò una mano e la strinse. - Storm, piacere! - esclamò, mentre gli occhi blu gli brillavano come un cielo stellato. "Oh, shit. È incantevole" pensai, rafforzando la mia stretta. "No, ma cosa vado a pensare? Io ho chiuso con l'amore" perché era così, innamorarsi di me era impossibile e io non desideravo lasciare spazio ai miei sentimenti. Quella notte mi addormentai pensando a quei due occhi che sembrano zaffiri. Ben presto feci amicizia con Storm: era un ragazzo vivace e allegro, alquanto solare. Nonostante la diversità di carattere, mi diceva spesso che ero "adorabile" e non l'avrei mai ammesso, ma adoravo quell'aggettivo, che detto da lui e rivolto a me mi faceva sembrare come un cucciolo di orso, scorbutico e goffo. - Sam, sei davvero adorabile - diceva con sguardo perso, e io gli rifilavo un'occhiataccia: - Moccioso - rispondevo, nonostante lui fosse più grande di me di un anno, e allora scoppiava a ridere, una risata contagiosa e cristallina. Tutti gli volevano bene, e io non potevo fare a meno di essere geloso di tutte le attenzioni che gli riservavano le ragazze, anche se lui non sembrava interessato. Passavamo molto tempo in biblioteca, io sempre immerso nei libri e lui a guardare me, a volte fischiettando un motivetto. Quel giorno mi abbracciò all'improvviso: - Il mio piccolo Sam! - esclamò arruffandomi affettuosamente i capelli. Diventai bordeaux: - Ma cos'hai, le pigne nel cervello? - lo sgridai imbarazzato e lui ridacchiò. - Sei così bello, Sam - ribatté tranquillamente, come se mi stesse chiedendo se c'erano compiti. Feci una smorfia e ripresi a leggere, quando sentii il suo fiato caldo all'orecchio: - Dico davvero, sai? - sussurrò, e un brivido mi percorse la spina dorsale. Deglutii, all'improvviso avevo la gola secca e il cuore che mi batteva forsennato nel petto. Lasciammo cadere il discorso, ma quella notte non riuscii a prendere sonno: c'era il viso di Storm in ogni mio pensiero, il suo sorriso, i suoi occhi, e nelle orecchie potevo ancora percepire il suo fiato e la sua voce bassa e calda. "Sei davvero un idiota, ti stai innamorando di lui senza nemmeno accorgerti!" sbottò una vocina, ma non la ascoltai perché nella mia mente c'era solo lui. Il mattino dopo, quando i suoi occhi incontrarono i miei, non potei fare a meno di arrossire e distogliere lo sguardo. Il suo sguardo lievemente ferito e indagatorio mi costrinse a fingere che fosse tutto ok, ma lo sentivo sondarmi l'anima come se fossi trasparente. - Sam - mi chiamò a fine giornata. Mi voltai di scatto: - Cosa... cosa c'è? - chiesi, nervoso. Mi fissò quasi con aria di rimprovero ed io sussultai. Possibile che lui sapesse? - Potrei chiederti lo stesso - replicò. - È tutto ok, non ti preoccupare. Ciao - e tentai di svignarmela, ma la sua mano si chiuse attorno al mio polso. - Aspetta - mi ordinò, poi mi fece sedere di fianco a lui. - Non scappare - mi intimò, lasciando andare il mio polso. Contrassi la mascella, a disagio. - Mi piaci, Sam - disse semplicemente. Lo guardai: - In che senso? - lo vidi alzare gli occhi al cielo. - Lo sai benissimo in che senso, non fare il finto tonto - replicò. Mi costrinsi a guardare la punta delle scarpe. - Sto aspettando una risposta - sbottò, con una voce dura che non gli avevo mai sentito. - Mi dispiace... - cominciai, ma venni interrotto dalle sue labbra che si premettero sulle mie. - Sam - il mio nome detto da lui sembrava molto più bello. Deglutii. - Storm, io... - i suoi occhi blu sprizzavano scintille. - Perché? Cos'ho che non va bene? - domandò. Ah. - No, il problema non sei tu ma io... - sembrava un dejà-vu . - E che problema avresti, scusa? - perché diavolo si ostinava a interrompermi? - Non voglio che nessuno, che tu, soffra per me - ammisi. - E ciò dimostra quanto tu sia innamorato di me - ribatté pacatamente. - Cos-... - non finii la frase perché le labbra di Storm tornarono a posarsi sulle mie. - Ti amo - sussurrò, e una sensazione travolgente mi esplose nello stomaco, riscaldandomi il cuore. Lasciai cadere la testa sul suo petto, mentre il suo sorriso che tanto amavo gli illuminava il viso. Sentii le sue braccia cingermi gentilmente, e a bassissima voce risposi: - Anch'io -